Lilith tra spiritualità cristiana e alchimia

Lilith è il capolavoro assoluto di George MacDonald. In questo suo ultimo romanzo, congegnato sulla falsariga di Phantastes ma con una profondità e una consapevolezza maggiori, lo scrittore scozzese si interroga, fra le altre cose, sulla natura e sull’origine del male. Esistono davvero bene e male, luce e ombra, altruismo ed egoismo? Oppure c’è una sostanziale unità tra questi opposti, che sono quindi solo apparenti?

Ribelle, egoista, chiusa in se stessa, la figura di Lilith viene presa come emblema del male e mostrata nel corso del romanzo in tutta la sua complessità, via via attraverso molteplici incarnazioni umane e animali. Lilith non è solamente un angelo che reclama la propria indipendenza muovendosi tra le schiere celesti; ella agisce nel mondo sottile ma, al contempo, anche in quello materiale e si sforza di distruggere tutto ciò che è stato creato dall’unico grande Pensatore.

Essere al di là di ogni distinzione tra bene e male non è semplice e non è da tutti, anzi. Se MacDonald come autore conforta e rassicura i lettori, mostrando lo scorcio di cielo che i suoi occhi sono riusciti a scrutare, il suo protagonista è inizialmente piuttosto imperfetto: si illude che il lavoro intellettuale svolto fra i libri, prima all’università e poi nella grande biblioteca di famiglia, sia l’unica ricerca importante, a discapito di qualsiasi altra forma di indagine. Lavorare per conoscere Lilith e integrare l’Ombra è invece assai più faticoso che studiare. Abbandonata la maschera dello studioso, del ricercatore, cosa resta? Chi è davvero Mr. Vane? Non c’è una risposta. Solo accettando di percorrere il viaggio nella brughiera desolata della propria interiorità, in un mondo con leggi apparentemente assurde e totalmente diverse da quelle già note, può tentare di capire qualcosa. Ma Mr. Vane non è che banderuola al vento, come dichiara il suo nome, e il cammino per lui è lungo, insidioso, terribilmente difficile: Lilith, infatti, un aspetto importante del suo animo, non può essere combattuta se non riesce neppure a vederla e riconoscerla come tale.

In un’era lontanissima, Lilith ha rifiutato il ruolo previsto per lei di moglie e madre e si è distaccata dal suo creatore. Il suo stesso corpo si trasforma nel romanzo da creatura angelica a mostro, separato e disperso in serpenti e pipistrelli in fuga, che la portano alla frammentazione di se stessa. Dietro a una principessa seducente si nasconde infatti un demone terribile: Mr. Vane deve aprire gli occhi, smettere di nutrirla ed essere pronto a combattere con coraggio per sconfiggerla.

Quella del protagonista sarà una trasformazione spirituale profonda, vicina al concetto alchemico della trasmutazione. Il suo processo di crescita e cambiamento riflette l’opera di purificazione e perfezionamento dell’anima. In Lilith MacDonald integra, dunque, alcuni concetti alchemici in un contesto cristiano, creando una sintesi unica tra tradizione esoterica e spiritualità cristiana. La coniunctio oppositorum, l’unione degli opposti, il ritorno all’unità con Dio, ci viene mostrata in Lilith come possibile attraverso il pentimento e la redenzione.

Come affermato già in Phantastes, MacDonald crede che “ciò che chiamiamo male è la sola e migliore forma che, per una persona e la sua condizione in quel momento, può essere assunta dal bene più alto”. Vi è dunque salvezza per tutti, persino per la demoniaca Lilith.

I libri sono specchi

La parte centrale di Phantastes è occupata da una storia nella storia, ossia quella di Cosmo e dello specchio magico, che Anodos, il protagonista del romanzo, legge in un libro mentre trascorre piacevolmente il suo tempo immerso nei preziosi volumi della biblioteca delle Fate. Rappresentazione concreta di mistero e di saggezza insieme, la biblioteca domina il centro fisico di Phantastes, esteticamente bella e grandiosa con i suoi innumerevoli volumi che ne tappezzano le pareti dal pavimento al soffitto.

Quando Anodos rimane estasiato alla vista di quel luogo, noi restiamo estasiati con lui, e quando prende un volume e ne sfoglia avidamente le pagine immedesimandosi nei protagonisti, le leggiamo e le assimiliamo anche noi.

“… se era un libro di viaggi, mi ritrovavo a essere il viaggiatore. Nuove terre, nuove esperienze, nuove usanze sorgevano intorno a me. Camminavo, scoprivo, combattevo, soffrivo, gioivo del mio successo. Era uno di storia? Io ero il protagonista. Soffrivo per colpa mia; gioivo della mia gloria. Con un romanzo era lo stesso. Mia era l’intera storia, perché prendevo il posto del personaggio che mi somigliava di più, e la sua storia era la mia; finché, stanco della vita di anni condensati in un’ora, o arrivato al mio letto di morte, o alla fine del volume, mi risvegliavo, con improvviso smarrimento, alla coscienza della mia vita presente, riconoscendo le pareti e il soffitto intorno a me, e scoprendo che avevo gioito o pianto solo in un libro”.

Così, quando riporta la storia di Cosmo, nobile ma povero studente dell’Università di Praga con il quale si è identificato durante la lettura, noi siamo già tanto coinvolti e partecipi da lasciarci trasportare nel racconto senza opporre resistenza, cogliendo anzi istintivamente la stessa connessione percepita da Anodos.

“Naturalmente, mentre lo leggevo, ero Cosmo e la sua storia era la mia”.

Per essendo amato dai compagni di corso, Cosmo non ha dei veri amici. Il suo alloggio è un luogo riservato alle sue letture più segrete, come quelle di Alberto Magno e Cornelio Agrippa, e alle sue fantasticherie. Un giorno vi introduce uno specchio di forma ovale preso in un negozio di articoli vecchi e polverosi. Con sua grande sorpresa, vede comparirvi una donna tutta vestita di bianco…

“Cosmo stesso non avrebbe potuto descrivere ciò che sentiva. Le sue emozioni erano di un tipo che distruggeva la consapevolezza e non poteva mai essere ricordato chiaramente. Non poté fare a meno di restare vicino allo specchio e di tenere gli occhi fissi sulla signora, sebbene fosse dolorosamente consapevole della propria rudezza e temesse in ogni momento che lei aprisse i suoi e incontrasse il suo sguardo fisso”.

… e se ne innamora perdutamente.

“Una sera, mentre guardava il suo tesoro, gli parve di vedere una debole espressione di consapevolezza sul suo volto, come se immaginasse che occhi appassionati fossero fissi su di lei. Questa crebbe, finché alla fine il sangue le arrossò il collo, le guance e la fronte. Il desiderio di Cosmo di avvicinarsi a lei divenne quasi delirante. Quella notte era vestita con un abito da sera, risplendente di diamanti. Questo non poteva aggiungere nulla alla sua bellezza, ma la presentava sotto un nuovo aspetto; aveva permesso alla sua bellezza di attuare una nuova manifestazione di sé in una nuova incarnazione. La bellezza pura è infinita…”

Lo specchio è un oggetto magico, che divide il mondo reale da quello riflesso, che duplica l’immagine della stanza e allo stesso tempo la inverte, creando un luogo simile a quello reale ma opposto, in cui risiedono il mistero e l’immaginazione. Non racconterò il seguito della storia per non rovinare il gusto della scoperta con troppe anticipazioni. Voglio però riflettere su una frase che si dice spesso: “i libri sono specchi”. MacDonald lo sapeva bene e ci ha lasciato un romanzo che rappresenta esso stesso uno specchio, in cui i lettori possono vedere molte immagini riflesse più e più volte tra le pagine, compresa la propria.

N.B. Le traduzioni dei brani riportati sono tratte dal seguente volume: George MacDonald, Phantastes. Un romanzo di fate per uomini e donne, traduzione di Michela Alessandroni, flower-ed 2022.

Folate di vento e una luce verde

Sto trascorrendo questi mesi estivi piacevolmente immersa nella traduzione di un romanzo dello scrittore scozzese George MacDonald; un lavoro iniziato qualche tempo fa, ma che si protrarrà ancora per un po’, vista la ricchezza di riferimenti letterari contenuti nel testo che desidero esplorare e segnalare ai lettori. Nel frattempo, però, vi invito a leggere la traduzione italiana di Elizabeth Harrowell della fiaba The Light Princess (“La principessa leggera”, flower-ed 2020) dello stesso MacDonald, che è ugualmente una fucina di spunti, echi e rimandi letterari. Delle suggestioni che mi hanno affascinato maggiormente, ve ne propongo due, che ho scelto fra le altre perché le ho istintivamente collegate a un romanzo che amo molto, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald The Great Gatsby (“Il grande Gatsby”): in entrambi i casi si descrive l’amata, noncurante e distante.

Il primo elemento è la leggerezza, quella delle folate di vento, del cuore e delle risate. Ma MacDonald avverte che la risata della principessa mancava di “una certa sfumatura che dipende dalla capacità di provare tristezza – forse la morbidezza. Non sorrideva mai”.

La stessa leggerezza ritroviamo nel vento che spira nella stanza e gonfia le tende quando incontriamo Daisy, la voce conturbante.

Il secondo elemento è la luce verde al di là dell’acqua. MacDonald scrive: “Là, i boschi erano più selvatici, la riva più scoscesa, innalzandosi ripidamente verso le montagne che circondavano da tutti i lati il lago, montagne che di continuo mandavano giù nel lago, come fossero dei messaggi, i loro ruscelletti argentei, dalla mattina alla sera e per tutta la notte. Trovò facilmente un punto da dove osservare la lucetta verde della camera delle principessa, e dove, persino con la luce del giorno, non ci fu pericolo di essere scoperto dalla riva di fronte. Era una specie di caverna nella roccia, dove si fece un letto di foglie appassite e si sdraiò, così stanco che neanche la fame riuscì a tenerlo sveglio. Per tutta la notte, sognò di nuotare insieme alla principessa”. Quella luce verde oltre il lago indica dunque nella fiaba il punto in cui vive l’indifferente amata.

Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, 1925

Allo stesso modo, nel passo più celebre del romanzo, Fitzgerald racconta della luce verde all’estremità del molo di Daisy: “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: andremo più in fretta domani, allungheremo ancora di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”. Dopo quella luce color verde speranza, MacDonald regalerà al lettore il classico lieto fine delle fiabe, mentre il protagonista di Fitzgerald vedrà dissolversi la propria visione illusoria.

In un’atmosfera sospesa tra sogni e speranze, ciascuno potrà veder riemergere, leggendo MacDonald, antiche sensazioni custodite dentro di sé e scorgere alcune di quelle relazioni che legano fra loro le opere della grande biblioteca universale.

Castelli in Spagna, castelli in aria

Cari lettori, oggi voglio portarvi alla scoperta di una interessante curiosità letteraria, partendo dalle pagine di Solo David, il romanzo di Eleanor Hodgman Porter pubblicato da flower-ed nel 2019. Il capitolo XVI è intitolato nella nostra traduzione italiana “I castelli in aria di David”. Costruire castelli in aria significa sognare a occhi aperti, ideando progetti irraggiungibili nella pratica; tuttavia, mentre “in aria” non è difficile da interpretare, l’originale inglese “in Spain” (“in Spagna”) necessita di qualche spiegazione in più.

La prima occorrenza in inglese di questa espressione risale al The Romaunt of Rose, traduzione parziale in Middle English dell’opera Le Roman de la Rose (“Il Romanzo della Rosa”), il celebre poema allegorico che incarna l’etica aristocratica dell’amor cortese. Il riferimento è all’innamorato che in sogno crede di tenere fra le sue braccia l’amata:

Lors feras chastiaus en Espaigne (“Thou shalt make castles in Spaine”)

Le sue radici affondano dunque nella lingua francese e, secondo alcuni studiosi, vanno ricercate ancor più indietro nel tempo, nella chanson de geste Aymeri de Narbonne (“Amerigo di Narbona”). La storia racconta che, tornando verso casa dopo la battaglia di Roncisvalle, nel nord della Spagna, durante la quale la retroguardia del suo esercito fu attaccata e massacrata, Carlo Magno si imbatté nella città di Narbona, roccaforte saracena. Decise di offrirla come possedimento a chiunque fra i suoi cavalieri l’avesse vinta, ma, interpellati uno a uno dal re, tutti rifiutarono di combattere ancora. Richarz de Normendie (“Riccardo di Normandia”) dichiarò:

Se j’estoie or arier en Normendie,

Ja en Espaigne n’avroie manantie,

Ne de Narbone n’avroie seignorie.

Fu allora che Ernaut de Beaulande presentò al re suo figlio Aymeriet (“Amerighetto”). Immediatamente tornano alla memoria Aymerillot di Victor Hugo e la traduzione di Pascoli, la diffusione del nome, Amerigo Vespucci e l’America. Ma questa è un’altra storia.

Sembra che durante la conquista della penisola iberica da parte dei Mori non venissero costruiti castelli nelle campagne spagnole per non offrire rifugio agli invasori. Un castello in Spagna era dunque qualcosa di impossibile da raggiungere e conquistare.

L’espressione compare anche nella letteratura successiva e talvolta “Spagna” è sostituito con un altro toponimo per necessità di rima. In queste varianti l’idea suggerita è sempre quella di un luogo lontano e inaccessibile.

In sede di traduzione è sempre importante andare oltre il significato letterale, capire non cosa l’autore dice, ma cosa l’autore vuole dire; il piccolo David, nato nel New England, non costruisce un castello realmente collocato in Spagna: la sua è una costruzione mentale, fatta di pensieri e immaginazione.

Con il passare del tempo il riferimento culturale andò perduto e oggi in inglese troviamo l’utilizzo di “castelli in aria” maggiormente diffuso rispetto a “castelli in Spagna”.

Jack London e la corsa all’oro nel Klondike

Cari lettori, il viaggio che intraprendiamo oggi ha come meta le terre più remote e fredde del Canada nord-occidentale, quelle che si trovano al confine con l’Alaska e che alla fine dell’Ottocento furono lo scenario della famosa e travolgente corsa all’oro. Era il 16 agosto 1896 quando un piccolo gruppo di persone, risalendo il fiume Klondike, scoprì dei nuovi giacimenti auriferi.

Immagine tratta da Klondike. The Chicago Record’s Book for Gold-Seekers.

La notizia di quella ricchezza si diffuse in gran fretta, dapprima nei campi minerari vicini e poi anche in luoghi più lontani e in altri Stati. Quando le voci di quella sensazionale scoperta lo raggiunsero, il giovane Jack London non si lasciò sfuggire l’occasione di arricchirsi. All’età di ventuno anni aveva già mostrato uno spirito avventuroso e soprattutto la capacità di arrangiarsi con quel poco che la vita gli aveva offerto: non dobbiamo dimenticare, infatti, il contesto sociale ed economico, fatto di povertà e disoccupazione, in cui la febbre dell’oro si sviluppò. Il 12 luglio del 1897, London partì con il Capitano Shepard, marito di sua sorella, per unirsi agli altri cercatori d’oro. Come quella di tanti altri uomini e donne, la sua esperienza si rivelò purtroppo estremamente difficile. Sappiamo che a causa della malnutrizione London sviluppò addirittura lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di vitamina C, che gli provocò la perdita dei quattro denti anteriori e un dolore lancinante ai muscoli delle gambe. Proprio questo tipo di lotta fisica condotta in quei luoghi freddi e inospitali lo portò, anni dopo, a scrivere Accendere un fuoco, che potete leggere nella nuova traduzione di Riccardo Mainetti, arricchita dalla Prefazione di Sara Staffolani, pubblicata da flower-ed. Molti film ricordano le imprese dei cercatori d’oro, ma a chi ha già letto questo racconto consiglio in particolare la visione di To Build a Fire del 1969, scritto, prodotto e diretto da David Cobham per la BBC e narrato da Orson Welles.

Jack London, Accendere un fuoco, flower-ed 2020

Nel periodo di preparazione del libro, mi sono avvicinata con grande passione al mondo della Klondike Gold Rush, documentandomi anche sui libri pubblicati in quegli anni (1896-1899, date di inizio e fine della corsa all’oro dello Yukon). Ho rintracciato alcuni volumi davvero interessanti, fra cui una affascinante raccolta fotografica e una guida comprensiva di indicazioni topografiche per gli aspiranti cercatori.

G.G. Cantwell, The Klondike. A Souvenir.

Forse non tutti sanno che anche alcune donne, con i loro mariti o sole, benestanti o povere, disperate o annoiate, sicuramente coraggiose e anticonvenzionali, si unirono all’avventura trovandosi in situazioni che mai avrebbero immaginato. La realtà da affrontare era molto dura, la vita nella natura selvaggia richiedeva abilità non comuni, come percorrere lunghi tratti a piedi o a cavallo, realizzare piccole barche per navigare i fiumi, costruire capanne di legno in cui poter abitare: tutto ciò in un mondo dominato dagli uomini e sotto tempeste di neve, fredde piogge e inondazioni. Per molte i sogni di ricchezza svanivano in fretta. Per altre con più ambizione e con il fiuto per gli affari il successo arrivò davvero, soprattutto fra chi seppe sfruttare le proprie capacità imprenditoriali nelle attività correlate alla ricerca dell’oro.

Donne nel Klondike durante la corsa all’oro.
National Park Service, Klondike Gold Rush National Historical Park, Stinebaugh Collection, KLGO 0004.009.001.005e

Ricordando con ammirazione tutte queste donne piene di grinta e desiderose di dare una svolta alla propria vita, una menzione speciale merita il ricco reportage Two Women in the Klondike, pubblicato a New York nel 1899; corredato di fotografie, ricco di episodi e curiosità, descrizioni geografiche e usanze locali, è opera dell’autrice ed esploratrice Mary Hitchcock (1849-1920), che condivise i pericoli e le avventure del viaggio con l’amica Edith Van Buren (1858-1914). Quest’ultima era la nipote di Martin Van Buren, ottavo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Mary Hitchcock e Edith Van Buren.

Partito pieno di sogni e speranze come tanti altri, Jack London tornò a casa malato e con un solo sacchetto d’oro. Eppure, in tutta questa delusione e sofferenza, si era arricchito interiormente al punto da poter offrire ai lettori delle storie straordinarie, entrate di diritto tra i capolavori della letteratura, come Il richiamo della foresta e Zanna bianca. Oltre ai libri, le fotografie, le lettere e gli archivi storici ci mostrano la dura realtà della sua avventura nello Yukon, ma anche la bellezza naturale e l’incanto di quei paesaggi. Un pittoresco museo, nascosto in un angolo tranquillo della città di Dawson, ha raccolto questo materiale e realizzato una replica della casetta di legno in cui London risiedette nell’inverno del 1897, completa di oggetti e arredi d’epoca. Parte della struttura è stata ricavata dai tronchi originali della sua capanna, che era situata sull’Henderson Creek. L’altra metà dei tronchi si trova a Oakland, in California, città dove Jack London nacque e trascorse la prima infanzia.

Lady Georgiana Fullerton, una scrittrice dall’animo buono

Cari lettori, ho pensato di aprire questo nuovo spazio interno al sito di flower-ed per condividere con voi alcuni approfondimenti letterari riguardanti il tempo e i luoghi, gli scrittori e le opere di cui ci occupiamo normalmente nei nostri libri. L’idea di affidare interamente alle pagine social, e quindi a delle strutture esterne alla casa editrice, il materiale pensato e raccolto nel tempo e in continuo accrescimento mi sembrava imprudente, poiché la quantità di informazioni immessa quotidianamente in quei siti può far passare inosservati contenuti invece interessanti. Inoltre, vorrei che anche in futuro gli articoli fossero rintracciabili dai lettori più curiosi, come in un archivio o in una biblioteca.

Con la pubblicazione di Rose Leblanc, desidero condividere con i lettori alcune informazioni biografiche sulla sua autrice, raccolte grazie ad alcuni libri in lingua inglese non ancora tradotti in italiano. Georgiana Charlotte Leveson Gower, meglio conosciuta come Lady Georgiana Fullerton, nacque a Tixall Hall, nello Staffordshire, il 23 settembre 1812. Era la figlia minore di Lord Granville Leveson Gower, ambasciatore inglese dapprima in Russia e poi in Francia, e Lady Harriet Elizabeth Cavendish; era inoltre nipote dal lato paterno del Marchese di Stafford e da quello materno del Duca di Devonshire. Fu dunque fra la nobiltà e il benessere che si formò la sua personalità, quella di una scrittrice, biografa e filantropa dall’animo semplice e umile. Nell’ultimo anno della sua vita, scrisse un breve ricordo della propria infanzia per l’amica Agnes Giberne, con la quale era entrata in confidenza in seguito ad alcuni viaggi romani legati a dei compiti ecclesiastici che ad Agnes erano stati assegnati. L’obiettivo di Lady Georgiana era quello di riesaminare il proprio passato alla luce della conversione al Cattolicesimo, cercando di volta in volta i momenti di crescita e di avvicinamento a Dio.

Sappiamo che all’età di quattro anni fu affidata alle cure di una governante molto severa, Mademoiselle Eward. Georgiana condivideva l’istruzione con sua sorella maggiore, Susan, la quale, a quanto pare, era la più dolce e amabile, nonché la preferita dell’insegnante; nonostante la differenza di trattamento ricevuto, le due sorelle furono sempre molto legate e non si misero mai in rivalità l’una contro l’altra.

A dodici anni Georgiana fece l’ingresso nella nuova casa a Parigi, città nella quale trascorse molti anni della sua giovinezza per via degli incarichi conferiti al padre presso l’ambasciata. Quel nuovo inizio non fu dei più facili, in quanto i genitori erano presi dalle faccende diplomatiche e trascorrevano meno tempo rispetto a prima insieme alle figlie, le quali, a loro volta, erano troppo giovani per debuttare in società o fare la loro apparizione nel salotto della madre, uno dei più brillanti di Parigi. La famiglia restò in Francia fino a quando, nel settembre 1827, un cambiamento nel governo inglese portò al suo rientro in patria.

Lady Georgiana e sua madre affrontarono il viaggio di ritorno su una carrozza aperta, mentre il padre, la sorella e il fratellino procedettero a cavallo. Attraversarono la Manica e si diressero verso Brighton. Qui le due ragazze furono sistemate in un’abitazione insieme alla governante, nella parte meno bella della città, mentre i genitori si recavano in visita da amici e parenti nella campagna circostante. In quel periodo cercò di comporre un poema, del quale scrisse il primo canto: narrava d’amore, di eroi e di cavalieri, temi così in voga fra le giovani dell’epoca. Nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza di Georgiana, il sentimento della governante nei suoi confronti si fece più tenero: consapevole del fatto che il suo ruolo stesse per finire, si rese conto, allo stesso tempo, di aver commesso degli errori e divenne più amabile e affettuosa. Quello di Lady Georgiana era un animo gentile ed accolse quei segni di tardivo affetto senza rancore o rabbia per il passato. La lunga assenza dall’Inghilterra e il modo ritirato in cui furono educate le due ragazze le avevano allontanate dai parenti, ma con il loro ritorno recuperarono quei rapporti rapidamente, godendo inoltre della bellezza dell’amata campagna inglese.

L’avventura francese non era ancora giunta al termine; infatti, il padre fu chiamato a più riprese per dei nuovi incarichi a Parigi. E fu proprio lì che, il 13 luglio 1833, Lady Georgiana sposò Alexander George Fullerton. I novelli sposi trascorsero l’autunno e parte dell’inverno in Inghilterra, per poi tornare nuovamente a Parigi, essendo Alexander attaché dell’ambasciata. Il matrimonio fu coronato dalla nascita di un figlio, il 15 luglio 1834, battezzato con il nome di William Granville. Lei aveva ventuno anni quando nacque suo figlio.

L’ambasciata francese era la loro casa. Se ne allontanarono spesso per viaggiare, ma lasciarono definitivamente Parigi solo otto anni dopo, nel 1841, quando il padre di lei si ritirò dagli affari diplomatici. Nei loro viaggi visitarono soprattutto l’Italia. Dapprima Genova, dove frequentarono la buona società, brillante e piena di vita. Non si parlava di Dio in quegli incontri, eppure l’atmosfera era pienamente cattolica, non di certo protestante. Sebbene la tradizione religiosa in cui era cresciuta fosse inflessibile, Lady Georgiana aveva sempre provato attrazione per il Cattolicesimo e ora poteva con soddisfazione conoscerlo meglio grazie ai nuovi incontri e restare affascinata dalle belle chiesa della città. La seconda tappa fu Torino, dove Georgiana ricevette un regalo speciale: Introduction to a Devout Life di San Francesco di Sales. Fu un dono assolutamente prezioso per lei, da parte di Madame de Bombelles: era il suo primo libro cattolico.

Nel frattempo il suo interesse per i poveri stava crescendo, insieme alla tendenza religiosa che ormai da tempo era al lavoro dentro di lei. Questo suo interesse era molto attivo e destinato a crescere negli anni. Una volta Lady Granville la vide particolarmente stanca e le disse: “Bambina mia, lavori troppo duramente”. “Mamma”, fu la sua risposta, “non possiamo lavorare mai troppo duramente per Dio”. Fino a quel momento aveva dato prova di un animo gentile, di un’inclinazione poetica, ma non del talento che avrebbe poi espresso nelle sue opere e questo era dovuto probabilmente al fatto che i suoi sentimenti necessitavano di tempi lunghi per dispiegarsi ed emergere.

I coniugi vissero per alcuni anni a Roma, a partire dal novembre 1842, con Lord e Lady Granville. Abitavano tutti insieme in un appartamento in Via del Corso che apparteneva a Lord Shrewsbury. Per Lady Georgiana Roma era ancora un libro chiuso, che con il tempo avrebbe saputo aprire, leggere e amare. A Roma il marito trascorreva il tempo in studi e conversazioni che erano il naturale risultato di molte letture e lunghe riflessioni: non poteva più rimandare l’atto che la sua coscienza gli chiedeva e si convertì al Cattolicesimo proprio quando era giunto il momento di lasciare Roma. Lo fece in segreto, mentre la moglie si trovava già a Firenze, in attesa che lui la raggiungesse. Egli non le aveva rivelato nulla circa la sua decisione né le aveva parlato del cambiamento che gradualmente lo aveva portato alle nuove convinzioni. Appena lo seppe, Lady Georgiana fu felice e sofferente allo stesso tempo: da una parte, le era di grande conforto sapere che lui avrebbe potuto aiutarla nel trovare delle risposte alle domande che la turbavano; dall’altra, la notizia brusca e improvvisa la poneva nella condizione di dover lei stessa fare una scelta e guardare con risolutezza alla strada che le si apriva davanti.

Nel 1843 finì di scrivere il suo primo romanzo e decise di sottoporlo all’attenzione di alcuni amici competenti prima di pubblicarlo. La sua carriera di scrittrice ebbe inizio nel luglio 1844, con la pubblicazione in tre volumi di Ellen Middleton. Il successo che il romanzo ebbe superò ogni aspettativa, sia da parte dell’autrice che dei suoi amici.

Intanto, la conversione del marito aveva preparato le persone intorno a Georgiana a quello stesso passo. Ella seguì le orme del marito, ricevendo il battesimo a Londra il 29 marzo 1846. Dopo alcune afflizioni, tra cui la malattia e la morte del padre, trovò finalmente la pace nella Chiesa cattolica. Nello stesso periodo, scrisse il suo secondo romanzo, Grantley Manor, pubblicato nel 1847.

I momenti felici con la famiglia, i soggiorni romani, le opere di carità erano la sua quotidianità. Poi un tragico evento segnò le vite dei coniugi. Arrivò la Guerra di Crimea e Granville desiderava ardentemente partecipare; con gran sollievo della madre, il dottore glielo proibì in maniera perentoria per motivi di salute. L’estate seguente, il ragazzo si trovò a passeggiare sul prato davanti casa, facendo progetti per il futuro insieme al padre. La sua salute non era peggiore del solito, eppure, un paio di giorni dopo quella conversazione, morì improvvisamente e senza dolore alla giovane età di 21 anni. Il dolore travolse i genitori,  gettandoli in uno stato permanente di lutto. Dopo quella perdita, Georgiana si dedicò interamente alle opere di filantropia e beneficenza, gestendo le sue opere caritatevoli dalla residenza di Fullerton nel Sussex.

Continuò a scrivere, pubblicando numerosi romanzi e biografie, soprattutto a tema religioso, come Rose Leblanc, nel 1861, e Too Strange to Be True, nel 1864. Nel 1856 adottò la tradizione francescana, entrando a far parte del Terzo Ordine di San Francesco. Secondo il censimento del 1861, lei, suo marito e undici servitori vivevano nell’elegante quartiere di Mayfair a Londra.  Nel 1875 si trasferirono a Bournemouth, dove ella morì il 19 gennaio 1885. Un animo buono e gentile, Lady Georgiana Fullerton fu una delle prime romanziere cattoliche a scrivere nell’Inghilterra del XIX secolo.