Sophia Peabody Hawthorne ed Elizabeth Barrett Browning

Durante il suo viaggio in Italia, compiuto insieme al marito Nathaniel e ai tre figli, Sophia Peabody Hawthorne incontrò molte anime affini, soprattutto artisti e poeti che, come lei, avevano lasciato, per periodi più o meno lunghi, l’Inghilterra e l’America. Tra loro vi era Elizabeth Barrett Browning, che si era stabilita a Firenze agli inizi del 1848, nella celebre Casa Guidi.

La prima visita in quella dimora donò a Sophia un’apparizione: con una sensibilità quasi medianica, raccontò nel suo diario l’incontro con Elizabeth, un essere diafano, la cui anima vibrava in ogni gesto e in ogni parola. Questa è una parte della sua descrizione:

“Sembrava uno spirito. Una nuvola di capelli ricadeva in riccioli da entrambi i lati del volto, velandone in parte i tratti. Ma da quel velo trasparivano occhi dolci e tristi, pensosi, lungimiranti e arcani. Le sue dita fatate sembravano troppo impalpabili per poterle stringere, eppure la loro stretta era davvero ferma e vigorosa. La più piccola quantità possibile di materia racchiudeva la sua anima, e ogni particella di essa era intrisa di cuore e intelletto[1]“.

Elizabeth, nel suo poema Casa Guidi Windows (1848 e 1851), osservando gli avvenimenti dalle finestre della sua abitazione, cantò la speranza e poi la disillusione di un popolo che voleva rinascere, mentre Sophia osservò, anni dopo, la Roma papale con sguardo pietoso e indignato. Nel suo Diario romano (scritto nel 1858) denunciò la decadenza morale dei potenti e lo sfruttamento dei luoghi sacri, vedendo nell’inerzia del presente il tradimento della grandezza passata.

Sophia Peabody Hawthorne, artista e diarista, Elizabeth Barrett Browning, poetessa, Margaret Fuller, intellettuale trascendentalista, amica di Mazzini, testimone della nascita e della caduta della Repubblica Romana, in seguito anche Jean Webster, scrittrice profondamente innamorata dell’Italia, e altre donne di penna ancora, nel corso dei decenni si riconobbero tutte in una stessa aspirazione: la libertà dell’Italia e di loro stesse, nella vita e nell’arte.


[1] Sophia Peabody Hawthorne, Notes in England and Italy, 1869. Traduzione di Michela Alessandroni.

Sophia Peabody Hawthorne e “L’Aurora”

Sophia Peabody Hawthorne

In via XXIV maggio, all’interno del complesso di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, sorge lo splendido Casino dell’Aurora. Da quando mi sono occupata della traduzione degli scritti di Sophia Peabody Hawthorne che lo menzionano, ho desiderato visitarlo per ammirare l’affresco di Guido Reni in tutta la sua bellezza. Sophia era un’artista e scriveva con la competenza di una storica dell’arte. Era inoltre moglie dello scrittore Nathaniel Hawthorne, nonché sorella di Elizabeth Peabody, una delle insegnanti della scuola di Amos Bronson Alcott, il padre di Louisa May Alcott.

Nel suo Diario romano, Sophia descrive “L’Aurora” con parole così suadenti che ho voluto ripercorrere i suoi passi e vedere con i miei occhi questa meraviglia italiana. Sophia ammirò l’affresco nel 1858, in una Roma molto diversa da quella attuale. Era l’epoca di Pio IX, dell’antica nobiltà con grandi ville in pieno centro cittadino, del carnevale romano in via del Corso, della messa solenne a Santa Maria sopra Minerva, degli orti coltivati al Circo Massimo, della malaria e dei soldati francesi ovunque. Anche Palazzo Pallavicini Rospigliosi era piantonato dai soldati francesi. Lì vi abitava la nobile famiglia, che concedeva ai visitatori l’accesso al Casino dell’Aurora il mercoledì e il sabato (mentre oggi solo il 1° del mese).

“Finalmente entrammo nella sala centrale, e lì, sul soffitto, apparve la famosissima Aurora, con Apollo che si alzava nel suo carro con la corona delle Ore. Rimasi stupita nel vedere l’affresco così brillante, come se fosse stato dipinto oggi, perfettamente intatto…”

Come Sophia, sono rimasta meravigliata anch’io dalla brillantezza dei colori. Un vero incanto. E mentre fuori i ragazzi da ogni parte del mondo affollavano le strade di Roma per il Giubileo dei Giovani e i turisti riempivano ogni centimetro da Fontana di Trevi a Piazza Venezia e oltre, io ero nel recinto atemporale del Casino, immersa nella luce arancione dell’Aurora, sotto la posa maestosa di Apollo sulla sua quadriga, incantata dal corteo delle Ore, stranamente attratta dall’oscurità notturna che si dirada davanti alla marea di luce dorata che avanza e si spande su ogni cosa.

“Un movimento così glorioso, fresco, gioioso, prorompente non era mai stato dipinto prima. Guido ha fatto sorgere il sole come nessun paesaggista… ma voi che volete vedere il sontuoso spettacolo nella sua interezza, venite a Roma e ammiratelo. Non c’è altro modo, le parole e la matita non possono riprodurlo”.

“L’Aurora” di Guido Reni. Foto tratta da www.casinoaurorapallavicini.it

Come nell’Ottocento, anche oggi è possibile ammirare l’affresco comodamente attraverso uno specchio.

“Uno specchio è sistemato nella sala in modo tale che, invece di rompersi il collo piegando all’indietro la testa, ci si possa sedere e guardarlo lì dentro, vedendo l’affresco come se fosse appeso al lato della stanza”.

Oltre al soffitto, anche le pareti sono affrescate, con i “Trionfi” di Antonio Tempesta e “Le Quattro Stagioni” di Paul Bril. Sarcofagi e busti sono posizionati intorno, ma soprattutto due bellissime statue hanno catturato la mia attenzione: “Artemide cacciatrice” con il cane a tenere fermo un piccolo cinghiale e “Atena Rospigliosi” con la splendida civetta dalle ali semiaperte.

“Quando uscimmo dal Casino, il bambino [della famiglia Rospigliosi] dormiva, e andai a guardarlo mentre giaceva in grembo alla sua balia. Era adorabile – le lunghe ciglia scure degli occhi chiusi che poggiavano su guance simili a petali di rosa – una bocca a forma di arco di Cupido, capelli castano chiaro su una fronte nobile e un nasino dritto e furbo. Tali volti e teste sono quelli che i pittori dipingono per cherubini e angeli, che volteggiano intorno a Madonne e santi di ogni tipo. La donna sedeva al sole (come la regina Anna), mentre il piccolo principe dormiva placidamente nell’aria profumata di fiori, accompagnato dal suono di una fontana in una nicchia vicina”.

Sophia racconta questo episodio come una di quelle scene di placida bellezza che si ricordano per tutta la vita. Ora non ci sono più i bambini Rospigliosi con le loro balie, eppure anch’io, uscita in giardino, ho assistito a una scena inusuale che porterò nel cuore. Richiamata da uno strano verso, voltando lo sguardo, ho visto due grossi falchi stridere e sbattere le ali smaniosi e un falconiere che dava loro da mangiare.

Per me la Letteratura è qualcosa di vivo, e tornare sui passi delle Autrici che studio e amo mi fa vivere con pienezza il mio lavoro. Il volume di Sophia Peabody Hawthorne uscirà subito dopo l’estate, carico di luoghi, opere d’arte ed emozioni, ma anche di informazioni su questa donna di spicco del movimento trascendentalista.

Scarlatto, il colore dell’impegno civile e della libertà

Pubblicato per la prima volta nel 1869 sul periodico “Putnam’s Magazine” e poi ristampato nella raccolta Silver Pitchers nel 1876 da Roberts Brothers di Boston – lo stesso editore che nel ’68 aveva pubblicato Piccole donneCalze scarlatte di Louisa May Alcott rappresenta il volume n. 30 della collana Five Yards, dedicata alla narrativa inglese e americana.

Per la copertina di questa mia nuova traduzione, ho scelto un motivo floreale in cui spiccano dei petali di colore scarlatto. Il colore rimanda al titolo dell’opera ed è anche simbolo di vivacità e anticonformismo, in un senso molto caro all’autrice: un’operosità volta a fare di tutto per migliorare se stessi e il mondo.

La storia, ambientata sullo sfondo della Guerra Civile Americana, narra di Harry Lennox, un ragazzo che torna nella sua cittadina natale per trascorrere del tempo con la sorella Kate dopo aver passato un lungo periodo in Europa. Di famiglia benestante, sembra sempre pigro e annoiato, soprattutto in quella piccola città dove non ci sono grandi occasioni sociali.

Affacciandosi alla finestra, gli capita, però, di vedere passare un paio di calze scarlatte, che si intravedono all’altezza delle caviglie di una ragazza. Lei si chiama Belle Morgan, è amica di Kate e sembra sempre indaffarata e impegnata in qualche attività. Belle, sempre occupata ad aiutare le famiglie povere e a sostenere attivamente il Nord durante la Guerra Civile, sarà di grande ispirazione per Lennox che, grazie a lei, cambierà il proprio stile di vita.

Il valore del contributo personale alla causa collettiva era per Alcott un tema molto sentito, che concretizzò durante la Guerra offrendosi come infermiera volontaria. L’azione concreta dell’individuo è per lei parte di una lotta più ampia per la giustizia e la libertà.

Come nota argutamente Romina Angelici nella Prefazione, il titolo Calze scarlatte fa tornare alla memoria il Circolo delle calze blu che, nell’Europa del Settecento, sosteneva l’emancipazione della donna. Alcott sembra voler mettere a confronto il clima salottiero di quell’esperienza con quello più attivo e pratico americano. Questo contrasto tra Europa e America è visibile anche nel personaggio di Lennox che è per metà inglese e per metà americano, per metà della storia pigro e annoiato e per l’altra metà attivo e volenteroso.

Il messaggio educativo e morale che Alcott intendeva affidare a questa storia è interessante, ma lo è ancor di più lo sguardo che ci offre sul passato (sulla Guerra Civile Americana) e anche sul presente. La divisione tra Nord e Sud non si è mai sanata del tutto e una linea invisibile separa ancora due visioni molto diverse. Leggere le opere di Alcott ci permette quindi di conoscere le radici storiche della realtà in cui viviamo e comprenderla meglio.

Nel mio lavoro di ricerca letteraria, continuerò a occuparmi di Louisa May Alcott, a studiarla, tradurla e pubblicarla. Le sue opere parlano di argomenti difficili come la povertà e la guerra, ma anche della capacità delle persone di rialzarsi e di sperare; del valore delle piccole cose e della possibilità di affrontare le difficoltà quotidiane, ma anche del ruolo della donna nella società e di libertà da conquistare.

E poi, in ogni sua pagina, c’è un invito sottile alla ribellione: come quello rappresentato da un paio di calze scarlatte che percorrono di buon passo la strada.

Castelli in Spagna, castelli in aria

Cari lettori, oggi voglio portarvi alla scoperta di una interessante curiosità letteraria, partendo dalle pagine di Solo David, il romanzo di Eleanor Hodgman Porter pubblicato da flower-ed nel 2019. Il capitolo XVI è intitolato nella nostra traduzione italiana “I castelli in aria di David”. Costruire castelli in aria significa sognare a occhi aperti, ideando progetti irraggiungibili nella pratica; tuttavia, mentre “in aria” non è difficile da interpretare, l’originale inglese “in Spain” (“in Spagna”) necessita di qualche spiegazione in più.

La prima occorrenza in inglese di questa espressione risale al The Romaunt of Rose, traduzione parziale in Middle English dell’opera Le Roman de la Rose (“Il Romanzo della Rosa”), il celebre poema allegorico che incarna l’etica aristocratica dell’amor cortese. Il riferimento è all’innamorato che in sogno crede di tenere fra le sue braccia l’amata:

Lors feras chastiaus en Espaigne (“Thou shalt make castles in Spaine”)

Le sue radici affondano dunque nella lingua francese e, secondo alcuni studiosi, vanno ricercate ancor più indietro nel tempo, nella chanson de geste Aymeri de Narbonne (“Amerigo di Narbona”). La storia racconta che, tornando verso casa dopo la battaglia di Roncisvalle, nel nord della Spagna, durante la quale la retroguardia del suo esercito fu attaccata e massacrata, Carlo Magno si imbatté nella città di Narbona, roccaforte saracena. Decise di offrirla come possedimento a chiunque fra i suoi cavalieri l’avesse vinta, ma, interpellati uno a uno dal re, tutti rifiutarono di combattere ancora. Richarz de Normendie (“Riccardo di Normandia”) dichiarò:

Se j’estoie or arier en Normendie,

Ja en Espaigne n’avroie manantie,

Ne de Narbone n’avroie seignorie.

Fu allora che Ernaut de Beaulande presentò al re suo figlio Aymeriet (“Amerighetto”). Immediatamente tornano alla memoria Aymerillot di Victor Hugo e la traduzione di Pascoli, la diffusione del nome, Amerigo Vespucci e l’America. Ma questa è un’altra storia.

Sembra che durante la conquista della penisola iberica da parte dei Mori non venissero costruiti castelli nelle campagne spagnole per non offrire rifugio agli invasori. Un castello in Spagna era dunque qualcosa di impossibile da raggiungere e conquistare.

L’espressione compare anche nella letteratura successiva e talvolta “Spagna” è sostituito con un altro toponimo per necessità di rima. In queste varianti l’idea suggerita è sempre quella di un luogo lontano e inaccessibile.

In sede di traduzione è sempre importante andare oltre il significato letterale, capire non cosa l’autore dice, ma cosa l’autore vuole dire; il piccolo David, nato nel New England, non costruisce un castello realmente collocato in Spagna: la sua è una costruzione mentale, fatta di pensieri e immaginazione.

Con il passare del tempo il riferimento culturale andò perduto e oggi in inglese troviamo l’utilizzo di “castelli in aria” maggiormente diffuso rispetto a “castelli in Spagna”.

Jack London e la corsa all’oro nel Klondike

Cari lettori, il viaggio che intraprendiamo oggi ha come meta le terre più remote e fredde del Canada nord-occidentale, quelle che si trovano al confine con l’Alaska e che alla fine dell’Ottocento furono lo scenario della famosa e travolgente corsa all’oro. Era il 16 agosto 1896 quando un piccolo gruppo di persone, risalendo il fiume Klondike, scoprì dei nuovi giacimenti auriferi.

Immagine tratta da Klondike. The Chicago Record’s Book for Gold-Seekers.

La notizia di quella ricchezza si diffuse in gran fretta, dapprima nei campi minerari vicini e poi anche in luoghi più lontani e in altri Stati. Quando le voci di quella sensazionale scoperta lo raggiunsero, il giovane Jack London non si lasciò sfuggire l’occasione di arricchirsi. All’età di ventuno anni aveva già mostrato uno spirito avventuroso e soprattutto la capacità di arrangiarsi con quel poco che la vita gli aveva offerto: non dobbiamo dimenticare, infatti, il contesto sociale ed economico, fatto di povertà e disoccupazione, in cui la febbre dell’oro si sviluppò. Il 12 luglio del 1897, London partì con il Capitano Shepard, marito di sua sorella, per unirsi agli altri cercatori d’oro. Come quella di tanti altri uomini e donne, la sua esperienza si rivelò purtroppo estremamente difficile. Sappiamo che a causa della malnutrizione London sviluppò addirittura lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di vitamina C, che gli provocò la perdita dei quattro denti anteriori e un dolore lancinante ai muscoli delle gambe. Proprio questo tipo di lotta fisica condotta in quei luoghi freddi e inospitali lo portò, anni dopo, a scrivere Accendere un fuoco, che potete leggere nella nuova traduzione di Riccardo Mainetti, arricchita dalla Prefazione di Sara Staffolani, pubblicata da flower-ed. Molti film ricordano le imprese dei cercatori d’oro, ma a chi ha già letto questo racconto consiglio in particolare la visione di To Build a Fire del 1969, scritto, prodotto e diretto da David Cobham per la BBC e narrato da Orson Welles.

Jack London, Accendere un fuoco, flower-ed 2020

Nel periodo di preparazione del libro, mi sono avvicinata con grande passione al mondo della Klondike Gold Rush, documentandomi anche sui libri pubblicati in quegli anni (1896-1899, date di inizio e fine della corsa all’oro dello Yukon). Ho rintracciato alcuni volumi davvero interessanti, fra cui una affascinante raccolta fotografica e una guida comprensiva di indicazioni topografiche per gli aspiranti cercatori.

G.G. Cantwell, The Klondike. A Souvenir.

Forse non tutti sanno che anche alcune donne, con i loro mariti o sole, benestanti o povere, disperate o annoiate, sicuramente coraggiose e anticonvenzionali, si unirono all’avventura trovandosi in situazioni che mai avrebbero immaginato. La realtà da affrontare era molto dura, la vita nella natura selvaggia richiedeva abilità non comuni, come percorrere lunghi tratti a piedi o a cavallo, realizzare piccole barche per navigare i fiumi, costruire capanne di legno in cui poter abitare: tutto ciò in un mondo dominato dagli uomini e sotto tempeste di neve, fredde piogge e inondazioni. Per molte i sogni di ricchezza svanivano in fretta. Per altre con più ambizione e con il fiuto per gli affari il successo arrivò davvero, soprattutto fra chi seppe sfruttare le proprie capacità imprenditoriali nelle attività correlate alla ricerca dell’oro.

Donne nel Klondike durante la corsa all’oro.
National Park Service, Klondike Gold Rush National Historical Park, Stinebaugh Collection, KLGO 0004.009.001.005e

Ricordando con ammirazione tutte queste donne piene di grinta e desiderose di dare una svolta alla propria vita, una menzione speciale merita il ricco reportage Two Women in the Klondike, pubblicato a New York nel 1899; corredato di fotografie, ricco di episodi e curiosità, descrizioni geografiche e usanze locali, è opera dell’autrice ed esploratrice Mary Hitchcock (1849-1920), che condivise i pericoli e le avventure del viaggio con l’amica Edith Van Buren (1858-1914). Quest’ultima era la nipote di Martin Van Buren, ottavo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Mary Hitchcock e Edith Van Buren.

Partito pieno di sogni e speranze come tanti altri, Jack London tornò a casa malato e con un solo sacchetto d’oro. Eppure, in tutta questa delusione e sofferenza, si era arricchito interiormente al punto da poter offrire ai lettori delle storie straordinarie, entrate di diritto tra i capolavori della letteratura, come Il richiamo della foresta e Zanna bianca. Oltre ai libri, le fotografie, le lettere e gli archivi storici ci mostrano la dura realtà della sua avventura nello Yukon, ma anche la bellezza naturale e l’incanto di quei paesaggi. Un pittoresco museo, nascosto in un angolo tranquillo della città di Dawson, ha raccolto questo materiale e realizzato una replica della casetta di legno in cui London risiedette nell’inverno del 1897, completa di oggetti e arredi d’epoca. Parte della struttura è stata ricavata dai tronchi originali della sua capanna, che era situata sull’Henderson Creek. L’altra metà dei tronchi si trova a Oakland, in California, città dove Jack London nacque e trascorse la prima infanzia.