Lilith tra spiritualità cristiana e alchimia

Lilith è il capolavoro assoluto di George MacDonald. In questo suo ultimo romanzo, congegnato sulla falsariga di Phantastes ma con una profondità e una consapevolezza maggiori, lo scrittore scozzese si interroga, fra le altre cose, sulla natura e sull’origine del male. Esistono davvero bene e male, luce e ombra, altruismo ed egoismo? Oppure c’è una sostanziale unità tra questi opposti, che sono quindi solo apparenti?

Ribelle, egoista, chiusa in se stessa, la figura di Lilith viene presa come emblema del male e mostrata nel corso del romanzo in tutta la sua complessità, via via attraverso molteplici incarnazioni umane e animali. Lilith non è solamente un angelo che reclama la propria indipendenza muovendosi tra le schiere celesti; ella agisce nel mondo sottile ma, al contempo, anche in quello materiale e si sforza di distruggere tutto ciò che è stato creato dall’unico grande Pensatore.

Essere al di là di ogni distinzione tra bene e male non è semplice e non è da tutti, anzi. Se MacDonald come autore conforta e rassicura i lettori, mostrando lo scorcio di cielo che i suoi occhi sono riusciti a scrutare, il suo protagonista è inizialmente piuttosto imperfetto: si illude che il lavoro intellettuale svolto fra i libri, prima all’università e poi nella grande biblioteca di famiglia, sia l’unica ricerca importante, a discapito di qualsiasi altra forma di indagine. Lavorare per conoscere Lilith e integrare l’Ombra è invece assai più faticoso che studiare. Abbandonata la maschera dello studioso, del ricercatore, cosa resta? Chi è davvero Mr. Vane? Non c’è una risposta. Solo accettando di percorrere il viaggio nella brughiera desolata della propria interiorità, in un mondo con leggi apparentemente assurde e totalmente diverse da quelle già note, può tentare di capire qualcosa. Ma Mr. Vane non è che banderuola al vento, come dichiara il suo nome, e il cammino per lui è lungo, insidioso, terribilmente difficile: Lilith, infatti, un aspetto importante del suo animo, non può essere combattuta se non riesce neppure a vederla e riconoscerla come tale.

In un’era lontanissima, Lilith ha rifiutato il ruolo previsto per lei di moglie e madre e si è distaccata dal suo creatore. Il suo stesso corpo si trasforma nel romanzo da creatura angelica a mostro, separato e disperso in serpenti e pipistrelli in fuga, che la portano alla frammentazione di se stessa. Dietro a una principessa seducente si nasconde infatti un demone terribile: Mr. Vane deve aprire gli occhi, smettere di nutrirla ed essere pronto a combattere con coraggio per sconfiggerla.

Quella del protagonista sarà una trasformazione spirituale profonda, vicina al concetto alchemico della trasmutazione. Il suo processo di crescita e cambiamento riflette l’opera di purificazione e perfezionamento dell’anima. In Lilith MacDonald integra, dunque, alcuni concetti alchemici in un contesto cristiano, creando una sintesi unica tra tradizione esoterica e spiritualità cristiana. La coniunctio oppositorum, l’unione degli opposti, il ritorno all’unità con Dio, ci viene mostrata in Lilith come possibile attraverso il pentimento e la redenzione.

Come affermato già in Phantastes, MacDonald crede che “ciò che chiamiamo male è la sola e migliore forma che, per una persona e la sua condizione in quel momento, può essere assunta dal bene più alto”. Vi è dunque salvezza per tutti, persino per la demoniaca Lilith.

I libri sono specchi

La parte centrale di Phantastes è occupata da una storia nella storia, ossia quella di Cosmo e dello specchio magico, che Anodos, il protagonista del romanzo, legge in un libro mentre trascorre piacevolmente il suo tempo immerso nei preziosi volumi della biblioteca delle Fate. Rappresentazione concreta di mistero e di saggezza insieme, la biblioteca domina il centro fisico di Phantastes, esteticamente bella e grandiosa con i suoi innumerevoli volumi che ne tappezzano le pareti dal pavimento al soffitto.

Quando Anodos rimane estasiato alla vista di quel luogo, noi restiamo estasiati con lui, e quando prende un volume e ne sfoglia avidamente le pagine immedesimandosi nei protagonisti, le leggiamo e le assimiliamo anche noi.

“… se era un libro di viaggi, mi ritrovavo a essere il viaggiatore. Nuove terre, nuove esperienze, nuove usanze sorgevano intorno a me. Camminavo, scoprivo, combattevo, soffrivo, gioivo del mio successo. Era uno di storia? Io ero il protagonista. Soffrivo per colpa mia; gioivo della mia gloria. Con un romanzo era lo stesso. Mia era l’intera storia, perché prendevo il posto del personaggio che mi somigliava di più, e la sua storia era la mia; finché, stanco della vita di anni condensati in un’ora, o arrivato al mio letto di morte, o alla fine del volume, mi risvegliavo, con improvviso smarrimento, alla coscienza della mia vita presente, riconoscendo le pareti e il soffitto intorno a me, e scoprendo che avevo gioito o pianto solo in un libro”.

Così, quando riporta la storia di Cosmo, nobile ma povero studente dell’Università di Praga con il quale si è identificato durante la lettura, noi siamo già tanto coinvolti e partecipi da lasciarci trasportare nel racconto senza opporre resistenza, cogliendo anzi istintivamente la stessa connessione percepita da Anodos.

“Naturalmente, mentre lo leggevo, ero Cosmo e la sua storia era la mia”.

Per essendo amato dai compagni di corso, Cosmo non ha dei veri amici. Il suo alloggio è un luogo riservato alle sue letture più segrete, come quelle di Alberto Magno e Cornelio Agrippa, e alle sue fantasticherie. Un giorno vi introduce uno specchio di forma ovale preso in un negozio di articoli vecchi e polverosi. Con sua grande sorpresa, vede comparirvi una donna tutta vestita di bianco…

“Cosmo stesso non avrebbe potuto descrivere ciò che sentiva. Le sue emozioni erano di un tipo che distruggeva la consapevolezza e non poteva mai essere ricordato chiaramente. Non poté fare a meno di restare vicino allo specchio e di tenere gli occhi fissi sulla signora, sebbene fosse dolorosamente consapevole della propria rudezza e temesse in ogni momento che lei aprisse i suoi e incontrasse il suo sguardo fisso”.

… e se ne innamora perdutamente.

“Una sera, mentre guardava il suo tesoro, gli parve di vedere una debole espressione di consapevolezza sul suo volto, come se immaginasse che occhi appassionati fossero fissi su di lei. Questa crebbe, finché alla fine il sangue le arrossò il collo, le guance e la fronte. Il desiderio di Cosmo di avvicinarsi a lei divenne quasi delirante. Quella notte era vestita con un abito da sera, risplendente di diamanti. Questo non poteva aggiungere nulla alla sua bellezza, ma la presentava sotto un nuovo aspetto; aveva permesso alla sua bellezza di attuare una nuova manifestazione di sé in una nuova incarnazione. La bellezza pura è infinita…”

Lo specchio è un oggetto magico, che divide il mondo reale da quello riflesso, che duplica l’immagine della stanza e allo stesso tempo la inverte, creando un luogo simile a quello reale ma opposto, in cui risiedono il mistero e l’immaginazione. Non racconterò il seguito della storia per non rovinare il gusto della scoperta con troppe anticipazioni. Voglio però riflettere su una frase che si dice spesso: “i libri sono specchi”. MacDonald lo sapeva bene e ci ha lasciato un romanzo che rappresenta esso stesso uno specchio, in cui i lettori possono vedere molte immagini riflesse più e più volte tra le pagine, compresa la propria.

N.B. Le traduzioni dei brani riportati sono tratte dal seguente volume: George MacDonald, Phantastes. Un romanzo di fate per uomini e donne, traduzione di Michela Alessandroni, flower-ed 2022.

George MacDonald e Lewis Carroll: storia di un’amicizia

Per i lettori italiani che conoscono ancora poco George MacDonald può essere interessante esaminare alcuni aspetti particolari che riguardano la sua vita e le sue opere. Per questa ragione ho pensato a una serie di articoli da pubblicare in questo spazio, che prende il via oggi con un approfondimento curioso: l’amicizia tra il nostro autore e Lewis Carroll.

Nell’aprile del 1857, dopo aver trascorso alcuni mesi ad Algeri in cerca di un clima favorevole, la famiglia MacDonald si stabilì a Hastings, al numero 27 dell’allora fuori moda Tackleway. La casa è oggi segnalata con la famosa placca blu di ceramica dell’English Heritage e vi leggiamo: “George MacDonald Poet & Novelist Lived Here 1857-1860”.

Fonte: openplaques.org

In questa cittadina dell’East Sussex, lo scrittore strinse amicizia con il dottor Hale, medico omeopatico, a sua volta amico del dottor Hunt, esperto di disturbi del linguaggio. Lewis Carroll era allora in cura presso quest’ultimo per via della balbuzie e fu grazie a tali legami che il futuro autore di Alice nel paese delle meraviglie fu presentato alla famiglia MacDonald.

Nella sua estrema timidezza e nel suo imbarazzo generale a parlare ed esporsi in pubblico, Lewis Carroll dovette trovare affascinante quella grande famiglia che organizzava incontri culturali in casa, aveva una sua compagnia teatrale ed era profondamente impegnata nella conduzione di una vita cristiana attiva.

I due scrittori trovarono poi terreno comune nell’interesse per il Romanticismo tedesco e inglese, di cui sono intrise le loro opere. Ma della vicinanza letteraria tra i due, e soprattutto dell’influenza di MacDonald su Carroll, racconterò nella prossima occasione. Li accomunavano anche l’amore per gli animali e la ferma opposizione alla pratica della vivisezione, la fiducia nell’efficacia dell’omeopatia e, naturalmente, l’interesse per la religione, il teatro e la scrittura.

Lewis Carroll, fortemente attratto dalla dimensione infantile, strinse amicizia anche con i bambini, incontrando per primi Mary Josephine, la sua preferita, e Greville Matheson. Era l’estate del 1860 e Greville stava posando nello studio di Alexander Munro per la statua, ora in Hyde Park, “Boy with the Dolphin”.

Sono giunte fino a noi diverse fotografie scattate da Lewis Carroll che testimoniano quell’amicizia, come anche alcune pagine di diario. Con il passare degli anni, e soprattutto a causa del trasferimento in Italia dei MacDonald, i contatti si allentarono, ma l’amicizia tra i due scrittori, che durò per più di vent’anni, perdura nei meravigliosi libri di Alice. I piccoli MacDonald ne furono i primi fortunati ascoltatori.

Lewis Carroll (al centro) con Louisa MacDonald e quattro dei suoi figli. Fonte: fonte georgemacdonald.info

Folate di vento e una luce verde

Sto trascorrendo questi mesi estivi piacevolmente immersa nella traduzione di un romanzo dello scrittore scozzese George MacDonald; un lavoro iniziato qualche tempo fa, ma che si protrarrà ancora per un po’, vista la ricchezza di riferimenti letterari contenuti nel testo che desidero esplorare e segnalare ai lettori. Nel frattempo, però, vi invito a leggere la traduzione italiana di Elizabeth Harrowell della fiaba The Light Princess (“La principessa leggera”, flower-ed 2020) dello stesso MacDonald, che è ugualmente una fucina di spunti, echi e rimandi letterari. Delle suggestioni che mi hanno affascinato maggiormente, ve ne propongo due, che ho scelto fra le altre perché le ho istintivamente collegate a un romanzo che amo molto, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald The Great Gatsby (“Il grande Gatsby”): in entrambi i casi si descrive l’amata, noncurante e distante.

Il primo elemento è la leggerezza, quella delle folate di vento, del cuore e delle risate. Ma MacDonald avverte che la risata della principessa mancava di “una certa sfumatura che dipende dalla capacità di provare tristezza – forse la morbidezza. Non sorrideva mai”.

La stessa leggerezza ritroviamo nel vento che spira nella stanza e gonfia le tende quando incontriamo Daisy, la voce conturbante.

Il secondo elemento è la luce verde al di là dell’acqua. MacDonald scrive: “Là, i boschi erano più selvatici, la riva più scoscesa, innalzandosi ripidamente verso le montagne che circondavano da tutti i lati il lago, montagne che di continuo mandavano giù nel lago, come fossero dei messaggi, i loro ruscelletti argentei, dalla mattina alla sera e per tutta la notte. Trovò facilmente un punto da dove osservare la lucetta verde della camera delle principessa, e dove, persino con la luce del giorno, non ci fu pericolo di essere scoperto dalla riva di fronte. Era una specie di caverna nella roccia, dove si fece un letto di foglie appassite e si sdraiò, così stanco che neanche la fame riuscì a tenerlo sveglio. Per tutta la notte, sognò di nuotare insieme alla principessa”. Quella luce verde oltre il lago indica dunque nella fiaba il punto in cui vive l’indifferente amata.

Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, 1925

Allo stesso modo, nel passo più celebre del romanzo, Fitzgerald racconta della luce verde all’estremità del molo di Daisy: “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: andremo più in fretta domani, allungheremo ancora di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”. Dopo quella luce color verde speranza, MacDonald regalerà al lettore il classico lieto fine delle fiabe, mentre il protagonista di Fitzgerald vedrà dissolversi la propria visione illusoria.

In un’atmosfera sospesa tra sogni e speranze, ciascuno potrà veder riemergere, leggendo MacDonald, antiche sensazioni custodite dentro di sé e scorgere alcune di quelle relazioni che legano fra loro le opere della grande biblioteca universale.