I capelli di Lilith

Nel panorama letterario di fine Ottocento, Lilith (1895) di George MacDonald rappresenta un’opera straordinaria, in cui la visione teologica, la mitologia più arcaica e il simbolismo cristiano si intrecciano in una storia che ruota intorno al concetto di redenzione. Lungi, dunque, dall’essere una semplice narrazione fantastica, il romanzo, visionario e denso di significati, costituisce una complessa meditazione sulla caduta, sul libero arbitrio e sul cammino verso la salvezza.

Nel mondo spirituale creato da George MacDonald, ogni elemento corporeo si carica di un valore profondo. L’attenzione al corpo femminile non è puramente descrittiva. I capelli di Lilith, in particolare, se da una parte aiutano a tratteggiare la sua immagine esteriore, dall’altra assumono una valenza simbolica che accompagna la sua trasformazione interiore.

Da emblema di potere e ribellione, la lunga chioma nera si trasforma progressivamente in una soglia visibile attraverso cui si manifesta il dramma spirituale del personaggio in lotta tra orgoglio e resa, volontà di dominio e accettazione.

“I capelli le scendevano quasi fino ai piedi e a volte il vento li mescolava così tanto con la nebbia che non riuscivo a distinguere gli uni dall’altra…”

Nella tradizione biblica e mitologica i capelli lunghi sono spesso segno di forza o di fascino – si pensi a Sansone, a Maria Maddalena, a Medusa. MacDonald si serve di questo archetipo, lo trasfigura e lo reinterpreta attraverso una lente cristiana e redentiva. La chioma di Lilith incarna così una bellezza oscura che deve essere trascesa per lasciare spazio alla salvezza.

I lunghi capelli sensuali, avvolgenti, quasi serpenteschi partecipano all’illusione, al potere e al fascino che Lilith esercita sul protagonista, sul lettore e persino sull’Autore. Estensione della sua identità, suo strumento di potere, come quelli della piccola Tangle nel racconto La chiave d’oro, sembrano rimandare al caos originario.

“«Come mai i miei capelli non sono aggrovigliati?» disse, accarezzandoli.
«Furono sempre trascinati dalla corrente».
«Come? – Cosa volete dire?»
«Non avrei potuto riportarvi in vita se non immergendovi nel fiume caldo ogni mattina».
Ebbe un brivido di disgusto, e rimase per un po’ con lo sguardo fisso sull’acqua corrente”.

Nel corso del romanzo, Lilith, da essere oscuro e ribelle, si trasforma e giunge a una sorta di agonia spirituale che precede la redenzione.

“All’improvviso la principessa inarcò il corpo verso l’alto, poi balzò sul pavimento e rimase in piedi. L’orrore sul suo viso mi fece tremare all’idea che i suoi occhi si aprissero e la loro vista mi annientasse. Il suo petto si sollevava e si riabbassava, ma non usciva alcun respiro. I suoi capelli pendevano gocciolando; poi si rizzarono sulla testa ed emisero scintille…”

Come la gatta Pussy, torturata con spine e spilli dalle fate in Phantastes, anche Lilith sprigiona scintille. Le scariche elettriche si riversano nella stanza dei Piccoli, tutta piena di gatti:

“Sciamavano su e giù, avanti e indietro, ovunque nella stanza”.

I capelli di Lilith sono stati rappresentati visivamente da due grandi artisti. Dante Gabriel Rossetti in Lady Lilith raffigura Lilith come una donna bellissima ed eterea, immersa in un gesto di auto-ammirazione: si guarda allo specchio e si pettina i lunghi capelli sensuali, ma senza riferimenti demoniaci espliciti.

John Collier in Lilith propone una versione più ambigua: la sua Lilith è nuda, un serpente le si avvolge intorno al corpo richiamando il concetto di peccato originale. I capelli sono sciolti, rossi e fluenti, simbolo di seduzione, pericolo e tentazione.

N.B. Le traduzioni dei brani riportati sono tratte dal seguente volume: George MacDonald, Lilith, traduzione di Michela Alessandroni, flower-ed 2024.

Per Louisa May Alcott, Jane Austen ed Emily Brontë: le antologie di flower-ed

L’idea di pubblicare delle antologie di racconti dedicate alle scrittrici che più amiamo nacque nel 2023, quando scelsi di realizzare un’opera corale per celebrare Louisa May Alcott e il suo genio letterario attraverso le parole delle autrici e degli autori di oggi. L’esperimento riuscì così bene che decisi di produrre in seguito altri due volumi: uno per Jane Austen e uno per Emily Brontë.

Oltre alla bellezza degli scritti, uno degli aspetti più interessanti è scoprire il modo in cui ogni penna esplora un dato mondo letterario attraverso uno stile e un approccio personale, che si concentra sull’autrice, su un personaggio o su un’opera, ambientando il racconto nel passato o nella nostra epoca. Tutti punti di vista appassionanti, che contribuiscono insieme a celebrare le scrittrici che consideriamo parte della nostra vita.

Quest’anno ho voluto porre al centro della nuova antologia un’altra volta Jane Austen, per festeggiare i 250 anni dalla sua nascita. In attesa di leggere tutte le storie pervenute per questo nuovo contest letterario, voglio dedicare uno spazio alle tre antologie già pubblicate, ricordando i titoli di tutti i racconti.

LA SOFFITTA DI JO MARCH

UNA ROSA PER LOUISA MAY ALCOTT Prefazione di Michela Alessandroni

LOUISA VA IN EUROPA di Romina Angelici

IN PERFETTO STILE MARCH di Monica Brizzi

LA QUINTA SORELLA di Samuela Casali

LA CASA DELLA SALVEZZA di Claudia Crocchianti

LA PROMESSA di Valentina Falduto

AMICHE RITROVATE di Antonella Lamanna

A PLUMFIELD CON AMORE, NAT di Riccardo Mainetti

LA TERZA SORELLA ALCOTT di Tiara Operno

UNA MARCH IN PIÙ di Anna Luigia Salis

DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA di Sara Staffolani

LOUISA ED ELLEN di Francesca Tamani

I LIBRI DI MEG di Cristina Zenoni

NATALE CON JANE AUSTEN

JANE AUSTEN E IL NATALE Prefazione di Romina Angelici

IL REGALO DI NATALE DI MARGARET di Romina Angelici                                                     

MALEDETTA JANE AUSTEN di Irene Aprile

UN BEL NATALE PER MISS EMMA di Helen Bellow

BUON NATALE DA ME E DA JANE di Giuliana Benedetto

A NATALE DOVETE VENIRE TUTTI A PEMBERLEY di Lucia Cabella

ODIO IL NATALE di Paola Campanelli

A HOPE FOR CHRISTMAS di Alexandra Capponi

NATALE A SANDITON di Samuela Casali

LA COSTANZA DI UN AMORE di Alice Currenti

UN NATALE A BARTON PARK di Giordano Giorgi

LA COLAZIONE DI NATALE di Valeria La Falce

LA “COSTRUZIONE” DI UN NATALE di Antonella Lamanna

UN DOLCE NATALE A PEMBERLEY di Lavinia Magnotta

UNA PICCOLA FAMIGLIA A NATALE di Maria Grazia Nocera

UN REGALO PER LADY CATHERINE di Eliana Nugnes

CENA DI NATALE PER JANE AUSTEN di Francesca Rocchi

UNA MUMMIA, UN CARLINO E TANTI AUGURI DI NATALE di Anna Luigia Salis

JANEITES di Denise Salis

TUTTO L’AMORE CHE POSSO di Adriana Spada

NATALE AL FRONTE di Judith Sparkle

L’ULTIMO NATALE di Sara Staffolani

IL BALLO DI NATALE di Francesca Tamani

IL REGALO DELLA NONNA di Matteo Testa

DI BUFERE, AMORI (IN)CORRISPOSTI E ALTRE MALDICENZE: UN NATALE NEL DIMENTICATOIO di Jessica Tommasi

NELLA BRUGHIERA CON EMILY BRONTË

L’ANIMA DELLA BRUGHIERA Prefazione di Sara Staffolani

UN FRAMMENTO DI ETERNITÀ di Michela Alessandroni

ELLIS E BELL di Irene Aprile

IL DESTINO DI UN CUORE GELIDO di Maria Florencia Batistoni

SONO SEMPRE I SOGNI A DARE FORMA AL MONDO di Giuliana Benedetto

INCONTRARSI ALL’ALBA di Lucia Cabella

DALL’ALTRA PARTE di Rita Cancedda

LA PAURA DI AMARE di Alexandra Capponi

SPIRITI INQUIETI di Samuela Casali

CONNOR, L’ARTISTA DELLA BRUGHIERA di Claudia Crocchianti

ESSENZA DI ERICA SELVATICA di Valentina Falduto

PIOVIGGINANDO SALE EMILY BRONTË E LE LACRIME DAL CIELO di Giordano Giorgi

UN TRENO SPECIALE di Antonella Lamanna

IL DIARIO PERDUTO DI EMILY BRONTË di Lavinia Magnotta

VERRÒ QUANDO PIÙ SEI TRISTE di Ambra Maltauro

GIORNO DI LETTURA di Maria Grazia Nocera

LA RICCHEZZA DI HEATHCLIFF di Eliana Nugnes

L’ULTIMO ADDIO ALLA RONDINE di Tiara Operno

DI UN ELFO, UNA RAGAZZA E UN CANE INDISPONENTE di Anna Luigia Salis

I MILLE INCANTI DELLA NATURA di Francesca Santucci

LO GNOMO di Elisa Sartarelli

DOVE IL MARE INCONTRA LE STORIE PORTATE VIA DAL VENTO di Adriana Spada

NON È UN ADDIO di Sara Staffolani

SUI PASSI DI EMILY BRONTË di Francesca Tamani

Scarlatto, il colore dell’impegno civile e della libertà

Pubblicato per la prima volta nel 1869 sul periodico “Putnam’s Magazine” e poi ristampato nella raccolta Silver Pitchers nel 1876 da Roberts Brothers di Boston – lo stesso editore che nel ’68 aveva pubblicato Piccole donneCalze scarlatte di Louisa May Alcott rappresenta il volume n. 30 della collana Five Yards, dedicata alla narrativa inglese e americana.

Per la copertina di questa mia nuova traduzione, ho scelto un motivo floreale in cui spiccano dei petali di colore scarlatto. Il colore rimanda al titolo dell’opera ed è anche simbolo di vivacità e anticonformismo, in un senso molto caro all’autrice: un’operosità volta a fare di tutto per migliorare se stessi e il mondo.

La storia, ambientata sullo sfondo della Guerra Civile Americana, narra di Harry Lennox, un ragazzo che torna nella sua cittadina natale per trascorrere del tempo con la sorella Kate dopo aver passato un lungo periodo in Europa. Di famiglia benestante, sembra sempre pigro e annoiato, soprattutto in quella piccola città dove non ci sono grandi occasioni sociali.

Affacciandosi alla finestra, gli capita, però, di vedere passare un paio di calze scarlatte, che si intravedono all’altezza delle caviglie di una ragazza. Lei si chiama Belle Morgan, è amica di Kate e sembra sempre indaffarata e impegnata in qualche attività. Belle, sempre occupata ad aiutare le famiglie povere e a sostenere attivamente il Nord durante la Guerra Civile, sarà di grande ispirazione per Lennox che, grazie a lei, cambierà il proprio stile di vita.

Il valore del contributo personale alla causa collettiva era per Alcott un tema molto sentito, che concretizzò durante la Guerra offrendosi come infermiera volontaria. L’azione concreta dell’individuo è per lei parte di una lotta più ampia per la giustizia e la libertà.

Come nota argutamente Romina Angelici nella Prefazione, il titolo Calze scarlatte fa tornare alla memoria il Circolo delle calze blu che, nell’Europa del Settecento, sosteneva l’emancipazione della donna. Alcott sembra voler mettere a confronto il clima salottiero di quell’esperienza con quello più attivo e pratico americano. Questo contrasto tra Europa e America è visibile anche nel personaggio di Lennox che è per metà inglese e per metà americano, per metà della storia pigro e annoiato e per l’altra metà attivo e volenteroso.

Il messaggio educativo e morale che Alcott intendeva affidare a questa storia è interessante, ma lo è ancor di più lo sguardo che ci offre sul passato (sulla Guerra Civile Americana) e anche sul presente. La divisione tra Nord e Sud non si è mai sanata del tutto e una linea invisibile separa ancora due visioni molto diverse. Leggere le opere di Alcott ci permette quindi di conoscere le radici storiche della realtà in cui viviamo e comprenderla meglio.

Nel mio lavoro di ricerca letteraria, continuerò a occuparmi di Louisa May Alcott, a studiarla, tradurla e pubblicarla. Le sue opere parlano di argomenti difficili come la povertà e la guerra, ma anche della capacità delle persone di rialzarsi e di sperare; del valore delle piccole cose e della possibilità di affrontare le difficoltà quotidiane, ma anche del ruolo della donna nella società e di libertà da conquistare.

E poi, in ogni sua pagina, c’è un invito sottile alla ribellione: come quello rappresentato da un paio di calze scarlatte che percorrono di buon passo la strada.

Raccontare Anne Hathaway

Il mio nuovo saggio, Anne Hathaway. Vita e misteri della moglie di Shakespeare, pubblicato da flower-ed all’inizio del 2025, rappresenta il volume n. 26 della collana Windy Moors, che ospita libri dedicati alla storia e alla letteratura inglese. Per la copertina ho scelto delle grandi rose gialle che, secondo me, rimandano alla bellezza naturale dell’Inghilterra, ai giardini e ai cottage di campagna. E proprio il cottage di Anne Hathaway è il luogo storico più importante ancora esistente legato a lei e alla sua famiglia. Può essere visitato e ammirato in tutto il suo fascino grazie a una grande opera di restauro e conservazione portata aventi dall’ente che cura i luoghi legati a Shakespeare.

L’idea di scrivere un saggio dedicato ad Anne è nata dal grande amore che nutro da sempre per Shakespeare e per la letteratura inglese, ma anche dalla volontà di rendere giustizia a una donna che è stata spesso criticata e descritta negativamente nella letteratura e nel cinema, ma senza prove e certezze reali. Il compito che mi sono data è stato, quindi, quello di raccontare Anne Hathaway studiando tutte le fonti che la riguardavano, tentando di ricostruire l’intero arco della sua esistenza senza alcun pregiudizio.

Anne nacque nel 1556 a Shottery, un piccolo paese di campagna nella regione delle Midlands. Trascorse l’infanzia e la giovinezza lì, occupandosi della terra e degli animali, della cottura del pane e della preparazione della birra, imparando così a gestire la tenuta di famiglia, che risiedeva nel cottage dal 1543. Come sorella maggiore, aveva anche il compito di badare ai fratelli più piccoli. Non andò a scuola, essendo l’istruzione femminile fortemente limitata all’epoca. La sua vita scorreva quindi in questo modo, come figlia di una famiglia agiata di campagna.

Nella vicina cittadina di Stratford vivevano gli Shakespeare, intimamente legati agli Hathaway da un rapporto di amicizia. Così fu semplice per Anne e William incontrarsi, conoscersi e, a un certo punto, anche innamorarsi. In un modo un po’ rocambolesco, si sposarono, nonostante lei avesse ventisei anni e lui diciotto: William era quindi di diversi anni più giovane e per la legge del tempo ancora minorenne. Ebbero tre figli (uno dei quali, Hamnet, morì a soli undici anni) e il loro matrimonio durò per tutta la vita.

Il sottotitolo del mio saggio recita “vita e misteri”, perché la storia personale di Anne è avvolta in gran parte nell’oscurità, essendo le fonti a nostra disposizione davvero scarse. Io ho cercato tracce di Anne ovunque: ho consultato gli archivi e i registri parrocchiali, ho studiato i documenti di matrimonio e gli antichi testamenti, riunendo tutta la documentazione in cui era menzionata.

Ma esistono anche misteri di altro tipo che ammantano la sua figura, domande a cui ho tentato di dare una risposta. Per esempio, perché il padre nel testamento la chiamò Agnes invece di Anne? Qual era il suo vero nome? E poi, perché lei e Shakespeare si sposarono in tutta fretta? E ancora, perché Shakespeare le lasciò in eredità solamente “il secondo miglior letto con l’arredo”? Nel mio lavoro di ricerca e scrittura, ho voluto esaminare tutti gli interrogativi che la riguardano, senza mai dimenticare il contesto storico e sociale dell’epoca.

La grandezza di Shakespeare è immensa e innegabile. Quella di Anne Hathaway fu di vivere nell’ombra, sacrificandosi per fa sì che il talento letterario del marito potesse fiorire. Tornare sulle sue tracce ha significato per me riconoscerle il giusto valore nella Storia e, allo stesso tempo, restituire la voce a tutte quelle donne del passato il cui contributo viene spesso dimenticato.

Lilith tra spiritualità cristiana e alchimia

Lilith è il capolavoro assoluto di George MacDonald. In questo suo ultimo romanzo, congegnato sulla falsariga di Phantastes ma con una profondità e una consapevolezza maggiori, lo scrittore scozzese si interroga, fra le altre cose, sulla natura e sull’origine del male. Esistono davvero bene e male, luce e ombra, altruismo ed egoismo? Oppure c’è una sostanziale unità tra questi opposti, che sono quindi solo apparenti?

Ribelle, egoista, chiusa in se stessa, la figura di Lilith viene presa come emblema del male e mostrata nel corso del romanzo in tutta la sua complessità, via via attraverso molteplici incarnazioni umane e animali. Lilith non è solamente un angelo che reclama la propria indipendenza muovendosi tra le schiere celesti; ella agisce nel mondo sottile ma, al contempo, anche in quello materiale e si sforza di distruggere tutto ciò che è stato creato dall’unico grande Pensatore.

Essere al di là di ogni distinzione tra bene e male non è semplice e non è da tutti, anzi. Se MacDonald come autore conforta e rassicura i lettori, mostrando lo scorcio di cielo che i suoi occhi sono riusciti a scrutare, il suo protagonista è inizialmente piuttosto imperfetto: si illude che il lavoro intellettuale svolto fra i libri, prima all’università e poi nella grande biblioteca di famiglia, sia l’unica ricerca importante, a discapito di qualsiasi altra forma di indagine. Lavorare per conoscere Lilith e integrare l’Ombra è invece assai più faticoso che studiare. Abbandonata la maschera dello studioso, del ricercatore, cosa resta? Chi è davvero Mr. Vane? Non c’è una risposta. Solo accettando di percorrere il viaggio nella brughiera desolata della propria interiorità, in un mondo con leggi apparentemente assurde e totalmente diverse da quelle già note, può tentare di capire qualcosa. Ma Mr. Vane non è che banderuola al vento, come dichiara il suo nome, e il cammino per lui è lungo, insidioso, terribilmente difficile: Lilith, infatti, un aspetto importante del suo animo, non può essere combattuta se non riesce neppure a vederla e riconoscerla come tale.

In un’era lontanissima, Lilith ha rifiutato il ruolo previsto per lei di moglie e madre e si è distaccata dal suo creatore. Il suo stesso corpo si trasforma nel romanzo da creatura angelica a mostro, separato e disperso in serpenti e pipistrelli in fuga, che la portano alla frammentazione di se stessa. Dietro a una principessa seducente si nasconde infatti un demone terribile: Mr. Vane deve aprire gli occhi, smettere di nutrirla ed essere pronto a combattere con coraggio per sconfiggerla.

Quella del protagonista sarà una trasformazione spirituale profonda, vicina al concetto alchemico della trasmutazione. Il suo processo di crescita e cambiamento riflette l’opera di purificazione e perfezionamento dell’anima. In Lilith MacDonald integra, dunque, alcuni concetti alchemici in un contesto cristiano, creando una sintesi unica tra tradizione esoterica e spiritualità cristiana. La coniunctio oppositorum, l’unione degli opposti, il ritorno all’unità con Dio, ci viene mostrata in Lilith come possibile attraverso il pentimento e la redenzione.

Come affermato già in Phantastes, MacDonald crede che “ciò che chiamiamo male è la sola e migliore forma che, per una persona e la sua condizione in quel momento, può essere assunta dal bene più alto”. Vi è dunque salvezza per tutti, persino per la demoniaca Lilith.

Il diario di Edith Holden

Molti di noi hanno l’abitudine di sfogliare, all’inizio di ogni mese, un diario particolarmente bello e prezioso, in cui è possibile ammirare le illustrazioni di piante e animali, e leggere pensieri e riflessioni sulla stagione in corso. Si tratta del famoso The Country Diary of an Edwardian Lady di Edith Holden. Non tutti, però, conoscono la storia di questo diario.

Edith Holden scrisse e illustrò The Country Diary of an Edwardian Lady a Gowan Bank, a partire dal gennaio del 1906. Questa era la più piccola delle case in cui aveva abitato fino a quel momento, ma la famiglia era in crisi finanziaria e non poteva permettersi di meglio. Aveva tre camere al primo piano e stanze per la servitù al piano superiore. C’era poi un piccolo giardino sul retro che Edith menzionò spesso nelle sue opere.

La dimora, situata nelle West Midlands, fu costruita nel 1905 e la famiglia Holden fu la prima ad abitarvi. Le piastrelle del corridoio, i vetri colorati delle finestre, i camini, il campanello per chiamare la servitù e altri elementi sono stati mantenuti nel corso degli anni e sono visibili ancora oggi. Tutto sommato, una casa che all’epoca poteva sembrare umile e angusta ai nostri occhi appare invece graziosa e accogliente.

Edith insegnava Arte ogni venerdì pomeriggio alle ragazze di una scuola privata. Utilizzava il diario come modello di riferimento per il lavoro delle sue alunne, per incoraggiarle a osservare e capire la natura attorno a loro. Le sue ricerche naturalistiche erano quindi uno strumento di lavoro legato all’insegnamento e non aveva mai pensato di pubblicarle in forma di libro.

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Rimasto nel silenzio e nella polvere di una biblioteca di famiglia, fu riscoperto moltissimi anni dopo la sua stesura e pubblicato postumo solo nel 1977. Il successo fu immediato e l’opera venne tradotta in moltissime lingue.

Dopo il grande successo del libro, nel 1984, ne fu tratta anche una serie televisiva in dodici puntate.

Racconta Sara Staffolani che Edith Holden “… registrò le sue osservazioni non solo naturalistiche ma anche botaniche e zoologiche nei suoi diari, nei quali rivive tutto il fascino nostalgico di un tempo perduto…” La biografia Una Lady nella campagna inglese. Vita e opere di Edith Holden, di cui è autrice, raccoglie ogni dettaglio e curiosità sulla vita di Edith, a partire dalla famiglia di origine fino alla misteriosa morte, avvenuta proprio durante una delle sue escursioni nella natura.

I libri sono specchi

La parte centrale di Phantastes è occupata da una storia nella storia, ossia quella di Cosmo e dello specchio magico, che Anodos, il protagonista del romanzo, legge in un libro mentre trascorre piacevolmente il suo tempo immerso nei preziosi volumi della biblioteca delle Fate. Rappresentazione concreta di mistero e di saggezza insieme, la biblioteca domina il centro fisico di Phantastes, esteticamente bella e grandiosa con i suoi innumerevoli volumi che ne tappezzano le pareti dal pavimento al soffitto.

Quando Anodos rimane estasiato alla vista di quel luogo, noi restiamo estasiati con lui, e quando prende un volume e ne sfoglia avidamente le pagine immedesimandosi nei protagonisti, le leggiamo e le assimiliamo anche noi.

“… se era un libro di viaggi, mi ritrovavo a essere il viaggiatore. Nuove terre, nuove esperienze, nuove usanze sorgevano intorno a me. Camminavo, scoprivo, combattevo, soffrivo, gioivo del mio successo. Era uno di storia? Io ero il protagonista. Soffrivo per colpa mia; gioivo della mia gloria. Con un romanzo era lo stesso. Mia era l’intera storia, perché prendevo il posto del personaggio che mi somigliava di più, e la sua storia era la mia; finché, stanco della vita di anni condensati in un’ora, o arrivato al mio letto di morte, o alla fine del volume, mi risvegliavo, con improvviso smarrimento, alla coscienza della mia vita presente, riconoscendo le pareti e il soffitto intorno a me, e scoprendo che avevo gioito o pianto solo in un libro”.

Così, quando riporta la storia di Cosmo, nobile ma povero studente dell’Università di Praga con il quale si è identificato durante la lettura, noi siamo già tanto coinvolti e partecipi da lasciarci trasportare nel racconto senza opporre resistenza, cogliendo anzi istintivamente la stessa connessione percepita da Anodos.

“Naturalmente, mentre lo leggevo, ero Cosmo e la sua storia era la mia”.

Per essendo amato dai compagni di corso, Cosmo non ha dei veri amici. Il suo alloggio è un luogo riservato alle sue letture più segrete, come quelle di Alberto Magno e Cornelio Agrippa, e alle sue fantasticherie. Un giorno vi introduce uno specchio di forma ovale preso in un negozio di articoli vecchi e polverosi. Con sua grande sorpresa, vede comparirvi una donna tutta vestita di bianco…

“Cosmo stesso non avrebbe potuto descrivere ciò che sentiva. Le sue emozioni erano di un tipo che distruggeva la consapevolezza e non poteva mai essere ricordato chiaramente. Non poté fare a meno di restare vicino allo specchio e di tenere gli occhi fissi sulla signora, sebbene fosse dolorosamente consapevole della propria rudezza e temesse in ogni momento che lei aprisse i suoi e incontrasse il suo sguardo fisso”.

… e se ne innamora perdutamente.

“Una sera, mentre guardava il suo tesoro, gli parve di vedere una debole espressione di consapevolezza sul suo volto, come se immaginasse che occhi appassionati fossero fissi su di lei. Questa crebbe, finché alla fine il sangue le arrossò il collo, le guance e la fronte. Il desiderio di Cosmo di avvicinarsi a lei divenne quasi delirante. Quella notte era vestita con un abito da sera, risplendente di diamanti. Questo non poteva aggiungere nulla alla sua bellezza, ma la presentava sotto un nuovo aspetto; aveva permesso alla sua bellezza di attuare una nuova manifestazione di sé in una nuova incarnazione. La bellezza pura è infinita…”

Lo specchio è un oggetto magico, che divide il mondo reale da quello riflesso, che duplica l’immagine della stanza e allo stesso tempo la inverte, creando un luogo simile a quello reale ma opposto, in cui risiedono il mistero e l’immaginazione. Non racconterò il seguito della storia per non rovinare il gusto della scoperta con troppe anticipazioni. Voglio però riflettere su una frase che si dice spesso: “i libri sono specchi”. MacDonald lo sapeva bene e ci ha lasciato un romanzo che rappresenta esso stesso uno specchio, in cui i lettori possono vedere molte immagini riflesse più e più volte tra le pagine, compresa la propria.

N.B. Le traduzioni dei brani riportati sono tratte dal seguente volume: George MacDonald, Phantastes. Un romanzo di fate per uomini e donne, traduzione di Michela Alessandroni, flower-ed 2022.

George MacDonald e Lewis Carroll: storia di un’amicizia

Per i lettori italiani che conoscono ancora poco George MacDonald può essere interessante esaminare alcuni aspetti particolari che riguardano la sua vita e le sue opere. Per questa ragione ho pensato a una serie di articoli da pubblicare in questo spazio, che prende il via oggi con un approfondimento curioso: l’amicizia tra il nostro autore e Lewis Carroll.

Nell’aprile del 1857, dopo aver trascorso alcuni mesi ad Algeri in cerca di un clima favorevole, la famiglia MacDonald si stabilì a Hastings, al numero 27 dell’allora fuori moda Tackleway. La casa è oggi segnalata con la famosa placca blu di ceramica dell’English Heritage e vi leggiamo: “George MacDonald Poet & Novelist Lived Here 1857-1860”.

Fonte: openplaques.org

In questa cittadina dell’East Sussex, lo scrittore strinse amicizia con il dottor Hale, medico omeopatico, a sua volta amico del dottor Hunt, esperto di disturbi del linguaggio. Lewis Carroll era allora in cura presso quest’ultimo per via della balbuzie e fu grazie a tali legami che il futuro autore di Alice nel paese delle meraviglie fu presentato alla famiglia MacDonald.

Nella sua estrema timidezza e nel suo imbarazzo generale a parlare ed esporsi in pubblico, Lewis Carroll dovette trovare affascinante quella grande famiglia che organizzava incontri culturali in casa, aveva una sua compagnia teatrale ed era profondamente impegnata nella conduzione di una vita cristiana attiva.

I due scrittori trovarono poi terreno comune nell’interesse per il Romanticismo tedesco e inglese, di cui sono intrise le loro opere. Ma della vicinanza letteraria tra i due, e soprattutto dell’influenza di MacDonald su Carroll, racconterò nella prossima occasione. Li accomunavano anche l’amore per gli animali e la ferma opposizione alla pratica della vivisezione, la fiducia nell’efficacia dell’omeopatia e, naturalmente, l’interesse per la religione, il teatro e la scrittura.

Lewis Carroll, fortemente attratto dalla dimensione infantile, strinse amicizia anche con i bambini, incontrando per primi Mary Josephine, la sua preferita, e Greville Matheson. Era l’estate del 1860 e Greville stava posando nello studio di Alexander Munro per la statua, ora in Hyde Park, “Boy with the Dolphin”.

Sono giunte fino a noi diverse fotografie scattate da Lewis Carroll che testimoniano quell’amicizia, come anche alcune pagine di diario. Con il passare degli anni, e soprattutto a causa del trasferimento in Italia dei MacDonald, i contatti si allentarono, ma l’amicizia tra i due scrittori, che durò per più di vent’anni, perdura nei meravigliosi libri di Alice. I piccoli MacDonald ne furono i primi fortunati ascoltatori.

Lewis Carroll (al centro) con Louisa MacDonald e quattro dei suoi figli. Fonte: fonte georgemacdonald.info

Quando Jean andava al college

Fondato nel 1861 da Matthew Vassar (1792-1868), uomo d’affari, birraio e filantropo inglese, il Vassar College fu il primo istituto dedicato all’educazione femminile negli Stati Uniti d’America: finalmente anche alle donne veniva offerta un’istruzione pari a quella che fino a quel momento era riservata solo agli uomini. I corsi abbracciavano discipline diverse, dalla storia dell’arte all’educazione fisica, dalla geologia all’astronomia, dalla musica alla chimica, ed erano tenuti dai maggiori studiosi dell’epoca.

Luogo prescelto per l’edificazione del College fu Poughkeepsie, una piccola città sul fiume Hudson a nord di New York. Poco dopo aver aperto le sue porte, l’istituto si era già guadagnato una reputazione tale da portare alla fondazione del primo capitolo della Phi Beta Kappa – noto club esclusivo, nato nel 1776, riservato agli studenti più meritevoli – in un college femminile.

Nel cortometraggio muto Daisies (1910) May è una ragazza che, in procinto di fare il suo ingresso al college, difende il proprio diritto agli studi ribattendo alle obiezioni del fidanzato Harry. Location prescelta del film fu proprio il Vassar College, a sottolinearne l’importanza nell’istruzione delle giovani donne. Il titolo trae probabilmente ispirazione dall’antica tradizione di raccogliere le margherite nel campo universitario e farne delle coroncine decorative per il Class Day.

Fra le varie tradizioni ricordiamo anche quella della Giornata del Fondatore, che fu riportata con grande ironia da Jean Webster in Quando Patty andava al college. La scrittrice, figlia della buona società, frequentò il Vassar tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. A quei tempi scrisse alcuni articoli per il giornale universitario, cercando di riportare le notizie più brillanti e divertenti riguardanti la vita collegiale. Dopo la laurea, decise di raccogliere in un libro quelle avventure vissute con le compagne di classe, e in particolare con l’amata compagna di stanza, la poetessa Adelaide Crapsey. Quando Patty andava al college fu pubblicato nel 1903, ma ha visto la luce in italiano solo nel 2021 grazie alla traduzione di Sara Staffolani.

Adelaide Crapsey.

In Patty possiamo rintracciare la personalità briosa e intelligente di Adelaide, ma anche quella dell’autrice stessa. Attraverso le parole di Webster possiamo ancora udire le risate divertite delle studentesse, condividere la loro ansia per gli esami, lasciarci trasportare con nostalgia dal fruscio delle vesti, dall’odore degli scrittoi in legno e dalla bellezza dei calamai d’argento, mentre quelle ragazze, fra le pagine del libro, immagineranno eternamente la loro vita da adulte.

Il College decise di aprire le sue porte anche agli uomini nel 1969: con il suo tipico spirito pionieristico, fu il primo college femminile a diventare misto. Spinto a grandi falcate verso il futuro da progetti scientifici e orientamenti inclusivi, il Vassar College affonda le sue radici nell’idea di una donna: l’insegnante Lydia Booth fu colei che incoraggiò Matthew Vassar, suo zio, a realizzarla. Probabilmente Lydia acquisì tali interessi intellettuali alla scuola di Miss Pierce; secondo Miss Pierce, infatti, che aderiva fermamente alla nozione di “maternità repubblicana”, le donne erano responsabili dell’educazione morale e intellettuale dei figli e quindi dovevano necessariamente ricevere un’istruzione superiore. Proprio per la sua esortazione a fondare un college femminile, Lucy M. Salmon, professoressa di Storia, ha definito Lydia “la vera fondatrice del Vassar College”.

Jack London e la corsa all’oro nel Klondike

Cari lettori, il viaggio che intraprendiamo oggi ha come meta le terre più remote e fredde del Canada nord-occidentale, quelle che si trovano al confine con l’Alaska e che alla fine dell’Ottocento furono lo scenario della famosa e travolgente corsa all’oro. Era il 16 agosto 1896 quando un piccolo gruppo di persone, risalendo il fiume Klondike, scoprì dei nuovi giacimenti auriferi.

Immagine tratta da Klondike. The Chicago Record’s Book for Gold-Seekers.

La notizia di quella ricchezza si diffuse in gran fretta, dapprima nei campi minerari vicini e poi anche in luoghi più lontani e in altri Stati. Quando le voci di quella sensazionale scoperta lo raggiunsero, il giovane Jack London non si lasciò sfuggire l’occasione di arricchirsi. All’età di ventuno anni aveva già mostrato uno spirito avventuroso e soprattutto la capacità di arrangiarsi con quel poco che la vita gli aveva offerto: non dobbiamo dimenticare, infatti, il contesto sociale ed economico, fatto di povertà e disoccupazione, in cui la febbre dell’oro si sviluppò. Il 12 luglio del 1897, London partì con il Capitano Shepard, marito di sua sorella, per unirsi agli altri cercatori d’oro. Come quella di tanti altri uomini e donne, la sua esperienza si rivelò purtroppo estremamente difficile. Sappiamo che a causa della malnutrizione London sviluppò addirittura lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di vitamina C, che gli provocò la perdita dei quattro denti anteriori e un dolore lancinante ai muscoli delle gambe. Proprio questo tipo di lotta fisica condotta in quei luoghi freddi e inospitali lo portò, anni dopo, a scrivere Accendere un fuoco, che potete leggere nella nuova traduzione di Riccardo Mainetti, arricchita dalla Prefazione di Sara Staffolani, pubblicata da flower-ed. Molti film ricordano le imprese dei cercatori d’oro, ma a chi ha già letto questo racconto consiglio in particolare la visione di To Build a Fire del 1969, scritto, prodotto e diretto da David Cobham per la BBC e narrato da Orson Welles.

Jack London, Accendere un fuoco, flower-ed 2020

Nel periodo di preparazione del libro, mi sono avvicinata con grande passione al mondo della Klondike Gold Rush, documentandomi anche sui libri pubblicati in quegli anni (1896-1899, date di inizio e fine della corsa all’oro dello Yukon). Ho rintracciato alcuni volumi davvero interessanti, fra cui una affascinante raccolta fotografica e una guida comprensiva di indicazioni topografiche per gli aspiranti cercatori.

G.G. Cantwell, The Klondike. A Souvenir.

Forse non tutti sanno che anche alcune donne, con i loro mariti o sole, benestanti o povere, disperate o annoiate, sicuramente coraggiose e anticonvenzionali, si unirono all’avventura trovandosi in situazioni che mai avrebbero immaginato. La realtà da affrontare era molto dura, la vita nella natura selvaggia richiedeva abilità non comuni, come percorrere lunghi tratti a piedi o a cavallo, realizzare piccole barche per navigare i fiumi, costruire capanne di legno in cui poter abitare: tutto ciò in un mondo dominato dagli uomini e sotto tempeste di neve, fredde piogge e inondazioni. Per molte i sogni di ricchezza svanivano in fretta. Per altre con più ambizione e con il fiuto per gli affari il successo arrivò davvero, soprattutto fra chi seppe sfruttare le proprie capacità imprenditoriali nelle attività correlate alla ricerca dell’oro.

Donne nel Klondike durante la corsa all’oro.
National Park Service, Klondike Gold Rush National Historical Park, Stinebaugh Collection, KLGO 0004.009.001.005e

Ricordando con ammirazione tutte queste donne piene di grinta e desiderose di dare una svolta alla propria vita, una menzione speciale merita il ricco reportage Two Women in the Klondike, pubblicato a New York nel 1899; corredato di fotografie, ricco di episodi e curiosità, descrizioni geografiche e usanze locali, è opera dell’autrice ed esploratrice Mary Hitchcock (1849-1920), che condivise i pericoli e le avventure del viaggio con l’amica Edith Van Buren (1858-1914). Quest’ultima era la nipote di Martin Van Buren, ottavo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Mary Hitchcock e Edith Van Buren.

Partito pieno di sogni e speranze come tanti altri, Jack London tornò a casa malato e con un solo sacchetto d’oro. Eppure, in tutta questa delusione e sofferenza, si era arricchito interiormente al punto da poter offrire ai lettori delle storie straordinarie, entrate di diritto tra i capolavori della letteratura, come Il richiamo della foresta e Zanna bianca. Oltre ai libri, le fotografie, le lettere e gli archivi storici ci mostrano la dura realtà della sua avventura nello Yukon, ma anche la bellezza naturale e l’incanto di quei paesaggi. Un pittoresco museo, nascosto in un angolo tranquillo della città di Dawson, ha raccolto questo materiale e realizzato una replica della casetta di legno in cui London risiedette nell’inverno del 1897, completa di oggetti e arredi d’epoca. Parte della struttura è stata ricavata dai tronchi originali della sua capanna, che era situata sull’Henderson Creek. L’altra metà dei tronchi si trova a Oakland, in California, città dove Jack London nacque e trascorse la prima infanzia.